Viviamo in una condizione di stimolazione continua, un eterno presente fatto di notifiche, video da trenta secondi, indignazioni lampo e immagini che si sovrappongono come layer infiniti. Il feed scorre, noi scorriamo con lui. Tutto è urgente, tutto è dimenticabile.
La cultura di massa – un tempo veicolo di diffusione culturale – è oggi un’industria dell’intrattenimento a bassa soglia cognitiva. Meme su genocidi. Reel motivazionali tra un bombardamento e l’altro. La tragedia è un contenuto; la riflessione, un fastidio.
Scrollare diventa un gesto automatico, simile a un tic nervoso. Sotto la superficie patinata, però, si consuma un’espropriazione: del tempo, dell’attenzione, dell’immaginazione politica. L’assuefazione visiva ci rende spettatori passivi, incapaci di distinguere tra realtà e simulacro.
E se il problema non fosse solo ciò che guardiamo, ma come lo guardiamo?
C’è un’estetica del torpore, oggi. Si nutre di colori saturi, loop infiniti, sound design sedativo. È la cultura del “coping content”, che ci invita ad accettare l’ansia globale con una playlist lo-fi o un tutorial per “organizzare la propria vita” mentre il mondo brucia.
Forse dovremmo iniziare a scrollare contro. Fare attrito. Fermarci. Scegliere cosa guardare davvero.
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