Non per essere aspra, ma leggendo un articolo sulla lezione tenuta all’inaugurazione di Marina Abramović, poso l’attenzione sul suo reiterare i primi passi della sua carriera.
Non posso fare a meno di pensare che artisti del suo spessore – e altri che seguono – tendano a storicizzare il proprio sé prima ancora della loro venuta. Ed è strano.
Credo che se ci soffermassimo un momento su questo concetto, farebbe un certo effetto per alcuni percepire sé stessi in questa maniera, e in un determinato contesto. Eppure funziona.
O perlomeno, su molti fa presa come storytelling: il creare su di sé un’aura, una mitologia del proprio sé (come ormai lo si vede esasperato sui social e oltre), tale per cui non puoi non riconoscergli un certo valore. Ti installano concetti e opere che hanno un valore spesso come la fondina della Merda d’artista o Infinity Mirror Rooms di Yayoi Kusama (riferimento puramente casuale…
non rammendo minimamente astio nel sentirmi presa in giro dalla scarsa qualità di intenti e di materie scelte).
Riprendendo l’Abramović, mi riferisco a due punti della sua carriera che trovo interessanti: Rhythm 0 (1974) e The Lovers (1988), dove si possono notare le radicali differenze negli intenti dell’artista. Divenuta anch’essa parte di questo sistema elitario – ahimè – nelle stesse interviste (in particolar modo nel suo docufilm biografico), lo ammette candidamente: un cambio di prospettiva.
Lo dice velatamente, ma c’è: sposta il focus dall’azione all’apparizione, ricucendo di significato ciò che aveva iniziato con Rhythm 0.
I suddetti sacerdoti della bellezza, in molti casi, si fanno beffa degli stessi fruitori, prendendo tutti in giro con il minimo sforzo per la massima resa.
Come in Comedian di Cattelan.
La fa a tutti sotto il naso e ci guadagna pure.
Onestamente? Fa bene.